Micol De Pas

Contro la rigenerazione urbana calata dall'alto, l'architetto e artista spiega cosa può fare l'arte per trasformare i luoghi partendo dai desideri di chi li abita

Secondo Maurizio Cilli, architetto, artista e progettista di interventi urbani molto umani quanto profondi, l’ozio e la memoria sono due ingredienti fondamentali e insostituibili per determinare la qualità di un luogo.

Ogni ambiente suscita in chi lo visita un insieme di sensazioni, più o meno gradevoli, che determinano il desiderio di prolungare la permanenza, scappare, tornarci.

Sicuramente quello in cui vorremmo fermarci e schiacciare un pisolino, è un posto molto, molto speciale. Perché è l’ozio, in un’ipotetica scala di misurazione dell’indice di gradimento dei luoghi, il valore derimente: quanto bisogna sentirsi a proprio agio, sereni e in qualche misura accolti per decidere di lasciarsi andare completamente?

Allora si potrà godere del rumore del vento tra le foglie, sdraiati sotto un albero che fa filtrare la luce del sole tra i suoi rami, dondolarsi dolcemente su un’amaca, dormicchiare in un interno-nido che risulta particolarmente confortevole e accogliente… Oziare, in una parola.

Che fa rima anche con ricordare: può darsi che quel posto vi abbia già ospitato e ne serbiate un bel ricordo, o che quella prima esperienza sia così importante da forgiarne uno da tenere al caldo nella memoria.

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Il lavoro di Maurizio Cilli è iniziato a Torino nel tentativo di salvare dallo smantellamento le grandi fabbriche in disuso che la punteggiano (in particolare, con un intervento alle OGR - Officine Grandi Riparazioni, oggi spazio espositivo e performativo privato), poi lungo i fiumi che disegnano la città piemontese, poi in alcuni quartieri in stato di degrado e abbandono.

Maurizio Cilli opera a stretto contatto con le comunità che vivono in aree della città da riqualificare o rigenerare. Ma Cilli è allergico a queste due parole.

Riqualificare e rigenerare: perché non le piacciono queste due parole?

«Se la parola riqualificazione è brutta, la parola rigenerazione è come se sottendesse uno stigma: questo quartiere va rigenerato perché chi ci vive vive nel deserto della socialità e in un posto brutto. Da rigenerare dunque nella bellezza, come se tale pratica avesse un potere estetizzante e ci fosse qualcuno che può arrogarsi il diritto, di individuare cosa è bene per gli altri. Per fare qualcosa di diverso, occorre avere un atteggiamento meno assertivo».

In cosa consiste un atteggiamento meno assertivo?

«Prima di tutto, bisogna insegnare alle pubbliche amministrazioni di dotarsi di squadre realmente impegnate a osservare la città, fatte di gruppi interdisciplinari di studiosi del fenomeno urbano, non solo dal punto di vista dello standard urbanistico, ma anche di che cosa significa abitare in certe zone.

L'apporto pedagogico, sociologico, antropologico, geografico è fondamentale per un osservatorio permanente sulla città, l’unico strumento utile per capirla veramente.

Ecco perché non voglio essere assertivo. A me interessa capire quale ruolo può giocare dal punto di vista scientifico il mio contributo a fare un lavoro di mediazione tra le discipline delle scienze sociali.

Ci sono due questioni da considerare: una riguarda le comunità che vivono in quartieri ai margini dove fare un lavoro sullo spazio pubblico, l’altra riguarda una politica delle trasformazioni urbanistiche a partire dalla volontà di riqualificare, brutta parola, di rimettere in campo la socialità degli spazi urbani.

Che cosa avviene di solito? Avviene che le trasformazioni partono dalla volontà delle grandi multinazionali della grande distribuzione di acquisire delle aree preziose lungo le tangenziali. Quindi di fatto non si progettano spazi pubblici, ma spazi aperti a vantaggio del parcheggio e della viabilità. Per evitare tutto questo, occorre fare un lavoro di prossimità».

Cosa intende per lavoro di prossimità?

«Significa lavorare a stretto contatto con le persone che vivono in quei luoghi e con le realtà del terzo settore che effettivamente operano nello spazio pubblico.

Ma il nostro compito è quello di esplorare i desideri delle persone. Il nostro compito è capire qual è la chiave dell’ozio in quel luogo preciso, perché la chiave è nell’ozio.

Quando vedi qualcuno oziare, vuol dire che sta bene e che quel posto ha una qualità. Per gli antichi era il genio, Genius loci, un fattore misterioso che produce un grado di appartenenza.

Attenzione, non parlo di identità, ma di appartenenza, di qualcosa di ancora più profondo: c’è qualcosa che mi fa schiacciare un pisolino sotto un albero.

Va capito quel genio, va osservato sotto copertura, bisogna stare lì, abitare il posto, ragionare. Tutto questo produce un patrimonio di conoscenza e di relazione che svela e toglie quel velo di disaffezione, di rancore, di senso d'ingiustizia che provano i cittadini che vengono coinvolti nei piani di rigenerazione. Ma richiede tempo, va fatto con molta calma».

Si parla molto anche di partecipazione. Ma è qualcosa che si può indurre?

«La partecipazione è un concetto delicato, amorevole, che va costruito attraverso un percorso lento, prima, durante, ma soprattutto dopo le scelte progettuali, dopo che si vedono i risultati.

Allora gli abitanti capiscono la presenza del progettista come una reciprocità (e che la loro vicinanza è un dono per lui e, viceversa, il suo lavoro un dono per loro). Non solo: la reciprocità produce un valore importante, quello del simbolico, che spesso si salda con il ricordo».

Possiamo parlare del quartiere Lucento di Torino come emblema di questo metodo?

«A Lucento c’era un senso di abbandono terribile anche dal punto di vista emotivo. Mi sembrava che non ci fosse fare niente se non semplicemente stare lì con gli abitanti, chiacchierare, provare a cucinare insieme.

Lo abbiamo fatto, preparando anche dei pani nel forno del quartiere a forma di UruBuro, quel serpente si morde la coda, a rappresentare un nuovo inizio in un processo generativo.

Ecco una parola bella: generativo. Cioè, lavorare per produrre stati emotivi generativi di qualche energia, di qualche volontà, specchio di un desiderio».

Così avete rimesso in funzione la banda, per esempio. E quello che è accaduto dopo è stato frutto del tempo.

«L’esperienza della banda è stata fortissima, ha creato grande coesione, ha ridato speranza alle persone, ha riacceso i ricordi e riattivato l’ascolto. Le racconto l’ultimo progetto in ordine di tempo a cui sto lavorando.

Siamo a Torino, quartiere Santa Rita, vicino a Mirafiori. L’incarico viene dalla Consulta di Torino, composta da 34 delle aziende più importanti del territorio.

Gli abitanti hanno espresso il desiderio di trasformare il giardino della scuola in un luogo riservato agli alunni al mattino e aperto a tutti al pomeriggio. Ho pensato di fare una chiamata ai nonni.

Consideri che quando è nata Mirafiori, tutte le famiglie che sono arrivate dalla Puglia, dalla Calabria, dalla Campania, pochi dalla Sicilia, hanno occupato un pezzo di terra per fare l'orto.

Tutti, quasi tutte le famiglie, perché erano abituate ad avere i loro pomodori, le loro melanzane, e quindi hanno, facendo delle devastazioni, per le quali ora c'è bisogno di fare delle bonifiche, cominciato a coltivare. In questi nonni, in queste nonne, c'è la capacità di guardare il terreno come una risorsa.

Allora io ho proposto di coinvolgerli e provare a costituire una specie di squadra d'azione che si prende cura e protegge questo terreno».

Beh, poi succederà che i bambini della scuola si fermeranno a giocare lì al pomeriggio.

«Sarebbe un sogno! Ed è per questo che comincio con un laboratorio con i bambini.

Nel giardino della scuola è vietato giocare a pallone. Se si toglie il pallone ai bambini e la possibilità di fare il tè finto alle bambine, allora si toglie il grado zero del gioco.

Voglio partire da qui per provare ad arrivare al grado 10, cioè a far loro immaginare i draghi, le caverne di foglie… allora il livello sale, dal grado zero si sale, si sale, si sale. È con la sintonia che si entra in feeling con l’interlocutore e ridisegna una volontà comune. Ma il suo raggiungimento richiede di mettersi in gioco con generosità».

Lei prima ha accennato all’importanza del simbolico. Può spiegarci di cosa si tratta?

«L’innesco di tutto è stato il Palais Ideal di Ferdinand Cheval a Hauterives (Drôme) dove ho vinto una residenza d’artista. Prima di tutto ho letto Paul Ricoeur che non conoscevo e ho capito quanto un edificio abbia una dimensione narrativa.

La narratività dell’architettura ha a che fare con l’enorme potenzialità come manifestazione della memoria.

L’architettura ha un valore ermeneutico importante e il Palais Ideal lo rappresenta, al punto che Guy Debord lo considerava più importante del Partenone.

Ecco, è dalla comprensione del significato che i situazionisti hanno avuto dell’architettura, che ho cominciato a immaginare che il gioco stia nel primato del simbolico.

Che poi è qualcosa che nasce di volta in volta dal contesto: nullius locus sine genio. Da cercare (o attivare) con l’arte, elemento importante nel mio lavoro, che non è né quello dell’architetto, né quello dell’artista… mi piace stare in una zona interstiziale tra le due professioni».

E forse perché è un luogo altamente simbolico.

Foto di copertina: Maurizio Cilli, ph. Giuseppe Martella