Beh, poi succederà che i bambini della scuola si fermeranno a giocare lì al pomeriggio.
«Sarebbe un sogno! Ed è per questo che comincio con un laboratorio con i bambini.
Nel giardino della scuola è vietato giocare a pallone. Se si toglie il pallone ai bambini e la possibilità di fare il tè finto alle bambine, allora si toglie il grado zero del gioco.
Voglio partire da qui per provare ad arrivare al grado 10, cioè a far loro immaginare i draghi, le caverne di foglie… allora il livello sale, dal grado zero si sale, si sale, si sale. È con la sintonia che si entra in feeling con l’interlocutore e ridisegna una volontà comune. Ma il suo raggiungimento richiede di mettersi in gioco con generosità».
Lei prima ha accennato all’importanza del simbolico. Può spiegarci di cosa si tratta?
«L’innesco di tutto è stato il Palais Ideal di Ferdinand Cheval a Hauterives (Drôme) dove ho vinto una residenza d’artista. Prima di tutto ho letto Paul Ricoeur che non conoscevo e ho capito quanto un edificio abbia una dimensione narrativa.
La narratività dell’architettura ha a che fare con l’enorme potenzialità come manifestazione della memoria.
L’architettura ha un valore ermeneutico importante e il Palais Ideal lo rappresenta, al punto che Guy Debord lo considerava più importante del Partenone.
Ecco, è dalla comprensione del significato che i situazionisti hanno avuto dell’architettura, che ho cominciato a immaginare che il gioco stia nel primato del simbolico.
Che poi è qualcosa che nasce di volta in volta dal contesto: nullius locus sine genio. Da cercare (o attivare) con l’arte, elemento importante nel mio lavoro, che non è né quello dell’architetto, né quello dell’artista… mi piace stare in una zona interstiziale tra le due professioni».
E forse perché è un luogo altamente simbolico.
Foto di copertina: Maurizio Cilli, ph. Giuseppe Martella